04/10/2007

A d’amo, e d’Eva

Capita spesso che rimanga molto tempo a fissare il monitor, prima di cominciare a scrivere qualcosa che m’aggradi. È questo il caso. Non mi piace scrivere troppo di me, ne tanto meno delle mie amarezze. Non mi piace, ma lo faccio. Non scriverei cose interessanti nemmeno se mi capitassero: preferisco propinare periodi senza logica, probabilmente per il mio modesto livello culturale che m’impedisce di formulare non più di un pensiero razionale alla volta. Mia madre sostiene che non sia mai stato entusiasta di nulla, e credo abbia ragione. Sono sempre più convinto del fatto che un ripasso generale delle nozioni base di lingua italiana non possa che giovarmi.
Stranamente oggi, rileggendomi dopo molto tempo, non mi sono trovato nemmeno troppo pesante. Forse ad alcuni di voi manca solo un algoritmo di lettura, una formula che traduca in sensate certe mie affermazioni apparentemente casuali. So per certo che coloro che posseggono suddetta “chiave” si possono contare sulle dita di una mano, i restanti non possono far altro che ipotizzare (beati voi).
Da due settimane sono sommerso dal lavoro, mangio il giusto e faccio poco movimento. Due settimane fa ero più giovane di quattordici giorni e mi dicevo che era solo questione di un paio di settimane e tutto si sarebbe risolto. Due settimane fa stava per cominciare il mio Autunno-inverno, proprio mentre i Weakerthans cantavano “Everything must go” e io ero seduto sul letto davanti all’armadio a fissare i vecchi maglioni di cotone; è quasi divertente il fatto che anche oggi abbia passato tre quarti della mia giornata in maniche corte. È altrettanto assurdo che durante il giorno mi capiti spesso di pormi domande esistenziali, banali, antiche, la cui risposta potrebbe benissimo essere inglobata in una paternale non troppo curata, ma benché me ne renda conto, rimango ugualmente a pensarci per qualche minuto, quasi in attesa di una risposta o di un miracolo divino che venga ad illuminarmi.
Mi piacerebbe vivere ottanta vite in ottanta giorni, per poi tornare alla mia, per capire cosa si prova a non essere vincolati da due binari che ogni giorno ti portano lungo lo stesso tragitto. Un po’ più di due settimane fa un’amica mi scrisse “ognuno ha i suoi occhiali, ma nessuno sa mai troppo bene di che colore siano le lenti dei propri”: lo penso anch’io.

Il titolo mi è caduto tra le braccia come una vecchietta che si butta dalla palazzina in fiamme urlando “E se fossi un pomodorooo?”.
“A” perché amo, certa gente. Amo chi non sa dirsi “ti amo”, ma prova sempre a trasmetterselo. “E” perché esprime susseguenza, perché devo ancora finire di riordinare il mio armadio.

Dedicato a tutti coloro che forse non lo leggeranno mai, e che a volte vorrei, prima o poi, lo facessero.

2 comments:

cantagallo said...

Se la serata di stasera sarà pervaso dallo stesso spirito di questo post credo che ti maledirò a vita... No, forse fino a lunedì, poi troverò altro da maledire.

giacomo said...

Ho appena realizzato che hai messo i Weakerthans in un tuo post. È terribile. Che cosa ti ho fatto, Santa, che cosa ti ho fatto.