26/08/2007

Cinque giorni in città

Ripartire o ricominciare?
Non è l’amletismo del dilemma in sé che m’angoscia, quanto la delusione nel veder riproposto tale interrogativo. E conseguenze varie.
Personalmente ricomincerei o da una ballata o da una panchina. In realtà sono solo (e qui potrei chiudere il periodo) ripartito da due braccialetti di gomma de “L’era glaciale 2”, e gli effetti non si sono fatti di certo attendere: alla prima avvisaglia autunnale ho prontamente contratto un virus che oltre ad avermi azzerato le idee su come imbastire questo post, tuttora mi debilita, mi fiacca.
Basterà qualche giorno per rimettermi del tutto (nel senso di vomitare tutto me stesso), cosa che trovo essenziale per una corretta ripartenza (o ripartizione?).
Al medico di famiglia, uno sveglio che mi conosce da tempo, non c’è voluto molto per estrapolare la diagnosi. Dopo avermi tastato accuratamente il ventre, ed aver appurato che non vi fossero lance, ha cominciato a fare domande del tipo: “Ricordi la storia della Volpe e dell’uva?”, “Ci pensi sempre?”, “Te la senti di provare con il power-pop?”.
Terminata la confidenza visita e dopo avermi consigliato un corso d’autostima presso lo studio del Prof. Rollins, m’ha poi prescritto una pillola ad effetto placebo gusto lampone da usare come alibi nel caso qualcuno insinuasse dubbi sulla mia infermità mentale. Ad Esempio (adoro gli esempi):


Lei: «Ma tu hai dei seri problemi… fatti visitare da uno bravo!»
S.: «Già fatto… è una malattia abbastanza rara sai.»
Lei: «Dai non scherzare su queste cose…!»
S.: «Non scherzo. Guarda, queste me le ha date il mio neurologo.»
A quel punto estraggo il placebo.
Lei (visibilmente imbarazzata): «Io non sapevo, scusa, mi dispiace, scusa!»
S.(gaudente): «Tranquilla, non sei la prima, non sei diversa da tutte le altre


A quel punto, teoricamente, non dovrebbe avere il coraggio di ribattere, anche se, è altrettanto probabile che quella sarà l’ultima frase che le dirai.


Comunque m’ha fatto bene qualche ora d’agonia; erano circa due settimane che non stavo male e già sentivo il pungere di strani sospetti. Dell’ ultima volta però, porto ancora i segni tu m’insegni.
Una volta passata anche questa, spero mi si conceda un piccolo intervallo per ritrovare un po’di seren-quillità. E poi, io e te dovremmo, tra le altre cose, portare a compimento il record settimanale di presenze nel capoluogo. Eravamo rimasti a quattro se non vado errato.
Avrei bisogno di qualche concerto indie in qualche posto umido, non di Meneguzzi e Irene Grandi che passano ogni giorno sulla radio preferita del mio collega.
I capelli li lascio crescere e, anche se so che a loro costa sacrificio, forse un giorno mi ringrazieranno. Dicono che sarebbe meglio innaffiarli ogni tanto, ma con sto tempo incerto credo che aspetterò la prossima ondata di pioggia. Peccato non poter dire la stessa cosa del mio conto corrente; peccato, altrimenti ora sarei davanti alla banca con il liquidator.
Mi trovo a corto di gentil-obiettivi, non posso negarlo, ma sto provando a non pensarci più di tanto; fossi vissuto nel ventennio fascista non avrei chiamato mio figlio Benito; ci vorrà un po’ di tempo per focalizzarli. Dopotutto non ho mai cercato di illuminare il lato oscuro della luna o di catturare la sua attenzione: credo sia il motivo per il quale la gente ti offra volentieri il caffè, indipendentemente dal fatto che tu gli stia simpatico o meno.
Mi piace pensare sia un gesto di rispetto, che tenga la coscienza a posto.


Lo so, l’ultima parte è un po’ difficile ed alcuni la troveranno incomprensibile, ma a chi obietterà sulla veridicità risponderò ingoiando pillole.
Mi raccomando, tu non farlo, Mantide.


Domande?

14/08/2007

Strano

Occhi aperti sull’altra sponda del fiume.
Effetti collaterali post-antitetanica mi portano di nuovo a sedere e a riflettere sulle possibili colorazioni, combinazioni che il buio può celare; paranoicamente parlando non trovo ne corrispondenza con le interpretazioni più semplici che lo vogliono associato al nero, ne con il luogo comune che lo vorrebbe circondato da silenzio. Dal mio punto di vista tutto ciò può essere esemplificato attraverso una situazione che da alcuni giorni continua a riproiettarsi nei miei sogni come un video di Madonna su Mtv.

Sono coricato e nell’aria c’è un gran odore di cipria. La mia mano destra stringe una minuscola pistola ad acqua. L’altra mano stringe un’altra mano. Il cielo è bianco e il sole un rilevatore di fumo. Cerco di svitare quest’ultimo a distanza, con due dita, quando una Voce dall’altra parte del fiume mi ricorda gratuitamente che sono pazzo; non passa un minuto che riesco nell’impresa. A quel punto sparo un goccio d’acqua contro questa Voce che salomonicamente si abbronza solo per metà, rilasciando una serie di esternazioni bucoliche che rimandano al colore dei suoi occhi. Avvilito dal meschino gesto, provo a spararmi in bocca, ma vinco solamente nell’intento di dissetarmi forse più di quanto avrei voluto. Le sussurro allora qualcosa di antipatico e forse vero, ma (e qui sta il dilemma) improvvisamente resto solo, perché la mano che prima stringevo si stacca e se ne va sull’altra sponda del fiume per diventare tutt’uno con essa e salutarmi per l’ennesima volta.

Mire cui ambire. Questo è il mio buio, la mia corda tesa tra i pali portanti del circo e, a sentire gli altri, la mia rete a maglie strette.
Aristogatti che ballano il boogie e Donatella Rettore come professoressa di lettere sono due piccoli atomi della grave finta crisi che dicono essere in atto dentro di me.
La luna è completamente oscurata e la stelle aspettano che batta ciglio per cadere. Canto canzoncine idiote mentre gioco a tennis sfruttando la racchetta come chitarra.
Spiacente, non posso sforzarmi di cambiare.
Gli occhi sono esami. È strano, non poter far altro che superarli.